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Qualche domanda e qualche risposta, per iniziare l’anno

Immagine del redattore: Andrea Moser Andrea Moser



Qualche mese fa, Giambattista Marchetto mi ha posto alcune domande intriganti sul. mondo del vino e sul mio nuovo percorso. Ne riporto qui alcune, per riprendere quei pensieri ma soprattutto per aprire l’anno con qualche riflessione da condividere. Mi piacerebbe che questo spazio e il mio account social fossero anche un luogo dinamico, in cui le persone interessate a questo argomento trovino spazio e voce, e dove insieme si costruisca una nuova narrazione del settore. Se vi va di partecipare, scrivetemi!


Se guardiamo la scenario nel mondo del vino, quanto è cambiato negli ultimi 10 anni? 

Più che negli ultimi 10 anni è cambiato moltissimo negli ultimi cinque, si è assistito a una fase di crescita che è durata fino al Covid e con il Covid è esplosa, facendo diventare il vino in alcuni casi un bene rifugio ma creando un divario sempre più grande fra i vini di primo prezzo e i vini di alta gamma, creando una bolla speculativa che oggi sta scoppiando. 


Si parla di crisi della domanda e la “colpa” viene attribuita ai giovani che non si approcciano al vino con la stessa passione di padri e nonni. È davvero così? 

Il mondo del vino è tendenzialmente un mondo rimasto “vecchio” sia nell’approccio che nella comunicazione, siamo ancorati alla nostra storia che va tutelata ma che va raccontata in maniera diversa. Un po’ quello che hanno fatto i grandi marchi di Spirits che sono diventati sì in alcuni casi premium ma sono comunque rimasti inclusivi aprendosi invece che chiudendosi: vedi per esempio l’utilizzo di grandi spirits nella mixology. Non abbiamo il linguaggio dei giovani: non credo bevano meno, semplicemente non li intercettiamo con il giusto modo. 


Qual è l’identikit di un vino contemporaneo e di un vino capace di stare sul mercato? 

Non c’è la formula magica e non ho la sfera di cristallo, ma credo che la parola chiave oggi sia trasparenza, non per forza mediata dai vecchi sistemi di doc, igt, certificazioni e marchi ma trasparenza negli intenti, nella produzione, e nella comunicazione, conoscendo e tarando bene il prezzo per la relativa nicchia di mercato. Il vino che sta sul mercato è quello che ha un’identità di territorio ma non di mano: l’unico modo per essere unici e non sostituibili. 


Nella tua attività di divulgatore ti trovi spesso a contrastare i concetti e le incomprensioni sul tema dei cosiddetti vini naturali. Perché credi ce ne sia la necessità?

Per un discorso di trasparenza e di cultura del vino: fare divulgazione serve al settore che in questo momento è diviso tra fazioni e pensieri che pensiamo opposti ma che potrebbero trovarsi a metà strada soprattutto in questa fase di cambiamento di mercato e di cambiamenti dal punto di vista sociale e climatico. 

Ho inserito una lezione nel mio corso proprio dedicata a spiegare bene la differenza tra i due mondi per dare la possibilità di comprenderne le differenze. 

(Se vuoi guardati le mie storie in evidenza sul naturale!)


Qualcuno sostiene che per immaginare il vino del futuro servono meno enologi e più filosofi … cosa ne pensi?

Sono d’accordo. E se ci fossero più enologi filosofi e meno filosofi enologi non pensi che sarebbe ancora meglio? È bello che il vino non sia tutto e solo tecnica, ma senza queste non si può fare un buon vino di buon senso. 


Come si innesta la capacità di visione nel lavoro di un Winemaker? Come si superano le lezioni prestabilite e le formule valide per ogni vitigno, Terroir, cantina? 

Credo che una delle cose più difficili da fare per un tecnico sia quella di utilizzare le sue risorse e conoscenze tecniche mettendole a fondamento delle sue decisioni senza però rimanerne schiavo. Penso sia un po’ come imparare a fare il padre: dare gli strumenti, gli insegnamenti, e a volte anche dei paletti, lasciando però la libertà di espressione. È una cosa che si impara maturando, mantenendo gli occhi aperti e sbagliando: non c’è una scuola che te lo insegna, purtroppo. 


Perché hai scelto di realizzare un progetto che gioca sul concetto di temporary Wine? Non è temporary ogni vino alla fine? 

In fondo è così, ma con AMProject abbiamo portato questo concetto all’ennesima potenza. Normalmente un produttore cerca di replicare, migliorandolo, lo stesso vino anno dopo anno. Io sto provando a costruire ogni anno un’identità diversa di un territorio, raccontandolo senza paletti e senza vincoli. È un cambio radicale di visione anche per me, perché significa avere libertà assoluta ma nessun appiglio. Ogni anno è un nuovo anno, e ogni vino è un nuovo esperimento. Non volevo più seguire dogmi, esperienze, stili della cantina ma essere libero di portare in bottiglia la fotografia esatta di quel vigneto, di quell’uva, in quell’anno e con l’interpretazione enologica più adatta a quel momento storico preciso. 


Come leggi oggi l’esperienza culturale del vino? E come dovrebbe cambiare la narrazione? 

Sono dell’idea che serve avvicinare chi beve e non mettersi in cattedra spiegando quel che sentiamo nel bicchiere: la nostra opera di divulgazione deve essere sul processo, sulla filiera, sulla magia che fa arrivare da un vigneto quel calice. Raccontare il lavoro degli uomini e delle donne del vino in tutti i suoi aspetti smettendo di focalizzarci sui sentori e sui descrittori. E poi, avere bene in testa il target a cui ci rivolgiamo per modificare il linguaggio, il tono di voce e la narrazione per essere il più possibile inclusivi e comprensibili a tutti. Avvicinare invece di spiegare una verità dogmatica e spesso incomprensibile ai più.


Se il vino non è più un alimento, è un lusso?

È una narrativa partita alla fine degli anni ’80 e di fatto il vino è un lusso: oggi però ci siamo allontanati troppo dall’alimento e ci siamo avvicinati troppo alle borse. Ristabilire un giusto mezzo potrebbe riportare il vino alla sua autenticità. 



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